“Que será, será whatever will be, will be”, canta Jvonne Giò al debutto dello spettacolo. L’inno al dubbio, all’incertezza, al fato è il filo conduttore de “Il rigore che non c’era”, un viaggio tra storia e curiosità, tra un penalty e una data da ricordare.
“Tu sai coniugare la poesia con il calcio”, così Marco Caronna descrive il suo compagno di palco Federico Buffa.
E così fa. Dal rigore più lungo della storia nel ’58, giocato a distanza di una settimana, al millesimo gol di Pelè. Si parla di calcio, ma si ammicca alla storia. Dei momenti prima di un rigore che hanno sulle spalle il peso di una partita, di un risultato. Di come un istante, un’azione possa cambiare gli eventi.
La partita di football è il particolare. Il contesto storico è l’insieme. E lo sport non è un mero passatempo, ma
assume un significato più alto, quasi rivoluzionario. Come fu per Nelson Mandela, che un anno dopo l’uscita di
prigione si definì primo tifoso dei rugbisti Springboks, squadra di bianchi pro-apartheid.
Snocciolando nomi dei grandi atleti dell’ultimo secolo, Buffa li collega all’attualità del tempo.
I sudamericani e le morti per alcolismo, Muhammad Ali e l’integrazione razziale, ma anche Sendero Luminoso e il Perù maoista.
Brevi monologhi che catturano la platea all’ascolto. Ma qualcosa stride.
Ciò che stona è la forzata “rottura della quarta parete”, l’idea di una dimensione al di là delle quinte che non si può superare, perché ogni porta rivolta verso l’esterno rimanda obbligatoriamente al palco. Il senso sembra essere che nonostante la possibilità di raccontare, di parlare di fatti accaduti, si tratti sempre di destino, di come l’essere umano sia solo un burattino governato dal caso.
Una narrazione intrisa da toni jazz – sapienti le mani del pianista Alessandro Nidi – che segna via via i vari momenti dello spettacolo. E la musica diventa un valore aggiunto, una parte che completa e che, in alcuni passaggi, avvicina “Il rigore che non c’era” a un musical. Probabilmente il mix meglio riuscito dell’intera serata.
Poiché il tentativo di raccogliere sotto uno stesso unicum più temi e motivi, forse troppi, rischia di confondere. Alla fine resta una certa perplessità di fondo, un senso di incompiuto per uno spettacolo onnicomprensivo, che rischia invece di non avere né capo né coda.
Forse l’incipit musicale era un avvertimento, ma alla fine la sensazione è di avere assistito a uno ‘zibaldone’ piuttosto forzato.