Si sa che la formazione di un individuo non è un’autostrada: è fatta di incontri, di contingenze, di imprevedibilità. E da questi incontri –alcuni immaginifici o quanto meno riconducibili alle suggestioni di un visionario, esaltato e percepito dai suoi contemporanei come “l’uomo del mistero”- trae le mosse questo soggetto de “Il secondo figlio di Dio”, storia semiseria di Davide Lazzaretti, detto il “Cristo dell’Amiata”, mistico predicatore italiano emulo oscuro di fra Dolcino e Gioacchino da Fiore, vissuto e morto agli albori e nei tumulti del nascente Regno d’Italia. Vi si racconta l’Italia di un territorio depresso, la Toscana di fine ‘800, secolo di grandi stravolgimenti. Qui Lazzaretti vive un’esistenza difficile ma ambiziosa, egli è un uomo nuovo in un mondo già vecchio; parla di proto-socialismo cristiano, donne al potere, addirittura Stati Uniti d’Europa e propone delle istanze ancora oggi molto forti, universali: istanze di uguaglianza, solidarietà, unione di tutti i popoli in una sola fede… salvo cadere poi in smanie di autoesaltazione e mistiche rivelazioni messianiche. Purtroppo però la sua avventura carismatica finisce male: il “Santo” profeta viene ammazzato e l’utopia si spezza. La sua è una storia passata quasi sotto silenzio, destinata alla damnatio memoriae, ma riproposta e raccontata al grande pubblico “con una serietà mezzo canzonatoria”(Manzoni) in questa piece scritta, recitata, cantata, anche letteralmente romanzata da un convinto ma non convincente Simone Cristicchi, per la regia esperta e deludente di un rogato Antonio Calenda. Mediocre epigono di un certo teatro di memoria, direttamente connesso- non si sa con quali pretese- al Teatro Canzone del grande Gaber, questo spettacolo “Sanza ‘nfamia e sanza lodo” è impostato tutto all’interno di una narrazione semiseria, sospesa tra gravità e leggerezza, tra messaggi di spiritualità, di innovazioni sociali da un lato e battute in vernacolo toscano dall’altro, spesso sottese ad una certa polemica anticlericale, del tipo «Maremma Pontificia». Il tentativo ruffianesco e non raggiunto è quello di strappare sorrisi (non certo risate), pur volendo raccontare vicende agiografiche poco conosciute, con un certo stile riflessivo e pluritematico. Il riferimento al Teatro Canzone è chiaramente ispirato dal fatto che, come per gli spettacoli del “Signor G”, anche qui, non a caso, troviamo ad esempio una scenografia ridotta all’osso: a farla da padrone è solo un barroccio, un carro veramente costruito ad arte e ricolmo di hitchcockiani MacGuffin, oggetti e artifici scenici usati come pretestuosi espedienti di dinamica narrativa e di riempimento. Sono questi la fatica principale del barrocciaio Cristicchi-Lazzaretti, che li smonta e rimonta, sposta e trasporta, tocca e trasforma per tutta o quasi la durata della piece, cercando affannosamente di dare dinamismo e ritmo ad una recita altrimenti piatta e monotona. In mezzo a questo andirivieni del nostro cantastorie, forse esagitato da non si sa quale specie di pidocchio di metà ‘800, gli va però riconosciuta una buona tenuta sia di parola che di canto: insomma il fiato gli regge. Anche qui poi ritroviamo ovviamente l’alternanza di monologhi ad una voce, con stacchi continui tra discorso diretto e indiretto, e di musiche e canzoni inedite; queste ultime evidente richiamo ad un mix non eccelso di melodie gregoriane, sonorità popolari, eco brevissima di una musicalità alla maniera de “La buona novella” di De Andrè. Ci dispiace per il talentuoso coro del Collegium Musicum dell’Alma Mater bolognese, timidi figuranti dagli ottimi costumi, di cui possiamo ricordare solo una comparsata: disposti accanto al nostro istrione quasi a ricordare Il quarto stato di Pellizza da Volpedo.