Lacci | visto da Marcella Pagliarulo

Luce soffusa, lei furiosa, lui inerme. Tante parole si rincorrono in modo affannoso e svelano fin dal principio, senza ambiguità, tutta la vicenda, togliendo allo spettatore ogni tipo di attesa e di speranza in un colpo di scena. Una storia semplice per mezzo della quale il regista (Armando Pugliese) con le parole di Domenico Starnone passa in rassegna temi tanto discussi quanto ancora delicati ed in evoluzione.

Intrecciando piani temporali differenti i personaggi si trovano ad agire in una scenografia atavica, glaciale che rappresenta delle mura domestiche lontane dall’immaginario collettivo; specchio dei rapporti della famiglia che le ha abitate, mura che restano sempre identiche nonostante il passare del tempo.
Aldo (Silvio Orlando) un uomo, un marito, un padre che decide di abbandonare tutto per immergersi in una vita nuova, lieve, cullata da un rapporto con una donna più giovane. Vanda (Valeria Scalera) una donna, una moglie, una madre costretta a sopportare il peso di un abbandono. Due figli, carichi di rancore, spaventati dall’idea di quel mostro che è per loro la famiglia. La fuga, il ritorno, le domande, la rabbia e la perenne insoddisfazione che permangono nel tempo ed in ogni personaggio. Quei lacci che dovrebbero tenere tutto stretto e vicino, che dovrebbero essere il ponte tra le due generazioni appaiono lacerati, assumendo, a seconda dell’intreccio, vari significati: divengono l’importante ed unico legame di un padre, quasi totalmente assente, con i suoi figli ed il ricordo offuscato, degno solo di qualche ghigno ironico, nella mente dei due bambini ormai adulti.

Nonostante i bei dialoghi e la profondità degli argomenti gli attori si rivelano troppo costruiti ed architettati a tavolino e stentano, per questo, a trasmettere quelle emozioni delle quali si fanno portavoce. Così, la storia, scena dopo scena, risulta appiattirsi, divenendo quasi monotona e ripetitiva.
Lo spettacolo resta comunque un affresco della società “borghese” e dei suoi dilemmi, intrappolati nell’ordine apparente delle quattro mura domestiche i quali finiscono per tormentare nell’interiorità chi le abita.