Il tempo e gli oggetti, i sentimenti e le dissimulazioni, le parole attese e il “non detto”: il tutto astretto dai lacci intricati del vissuto. Si, i lacci…Che strano oggetto i lacci!. Per loro peculiare conformazione ontologica si presentano come portatori di ambiguità funzionale: servono per legare ma anche, all’opposto, per torturare; tutto dipende dal proposito di chi li maneggia. Talora, però, i lacci, riescono addirittura a porre in essere inavvertitamente ambo le cose in maniera simultanea, alla stessa stregua di quei sentimenti capaci di legare a tal punto da opprimere o finanche da sopprimere («mi hai già ammazzata tu, nella sostanza» dirà Vanda, disperata, al marito).
Prende spunto da questa significativa immagine (sottesa all’intera storia), l’ultima fatica di Domenico Starnone, portata in scena da Silvio Orlando per la regia di Armando Pugliese. La vicenda si propone come un viaggio tra le viscere di un sentimento e del suo inesorabile declino, attraverso uno stillicidio di reciproche afflizioni, verità misconosciute, ripensamenti, turbamenti. In un calibrato baricentro tra il dramma e la commedia, viene riproposto il travaglio esistenziale di una coppia, unitasi in matrimonio all’inizio degli anni Sessanta, mossi dal mito della precoce conquista dell’ indipendenza. La scena si apre in medias res: dopo circa dieci anni di vita matrimoniale,
Vanda scrive una dura lettera al marito che ha deciso di abbandonare casa, innamorato di un’altra giovane ragazza. Il monologo iniziale (interpretato da Maria Laura Rondanini) esprime con veemenza, mista a sottesa e cruda ironia, la rabbia di una donna ancora innamorata in cerca di risposte dall’uomo da cui ha avuto due figli. I “lacci” del rimorso richiamano presto Aldo verso Vanda e la crisi tra i due coniugi sembra ricomporsi con un ritorno alla normalità (ma solo apparente). Trascorrono gli anni ed ecco che inaspettatamente il passato irrompe sulla scena, con irruenza (e qui, gli espedienti scenografici, pregni di metafora, meritano certamente un plauso!). La spiacevole sorpresa del ritrovamento della propria abitazione messa a soqquadro in loro assenza da presunti ladri consente alla coppia, ormai matura, di togliere la garza sottile posta sulla ferita di quel tradimento, tutt’altro che rimarginata. I vecchi diari, le foto, gli oggetti sparsi per casa danno l’input al vecchio Aldo (interpretato da Silvio Orlando) per raccontare ciò che per anni ha covato nell’animo. Risorgono alla luce le menzogne reciproche, le finzioni, le cose non dette.
D’altronde, come chiosa efficacemente uno dei personaggi, spesso «nelle case c’è un ordine apparente che nasconde un disordine reale». L’evento fortuito consente, quindi, a entrambi di fare i conti con se stessi e con il simulacro del loro affetto. L’intreccio semplice si evolve attraverso dialoghi volutamente leggeri, privi di sofismo ma ornati da una velata ironia tragica. Nella scenografia sobria ma eloquente, un ruolo principe lo assumono invece gli oggetti, le res che, apparentemente irrilevanti, animano in realtà la scena. Gli elementi di quella casa diventano tracce pesanti, segni di una presenza, impronte indelebili del passato che si impongono nelle esistenze di chiunque vi abbia vissuto: di Vanda e Aldo, ma soprattutto dei loro due figli.
L’essenza delle vite dei protagonisti paiono oscillare tra l’essere, talora, coacervi di sentimenti repressi, talaltra, meri «ingranaggi di una macchina priva di senso». Quella che doveva essere una semplice catarsi di coppia disvela una realtà tanto inattesa quanto drammatica: i veri effetti di quella ferita, per anni dissimulata e mai realmente rimarginata, si scoprono già reconditamente propagati, al di là di ogni ragionevole previsione, ben oltre le loro tormentate esistenze.