“Lacci”. Un titolo bizzarro quello dello spettacolo architettato da Armando Pugliese, ma che si insinua ora esplicitamente ora non, nei meandri di una famiglia che si regge sul caro, instabile perno dell’abitudine. I lacci sono quei fili ingarbugliati disposti per la casa dove non è concesso incespicare. Sono la catena che lega un padre all’idea di famiglia. Sono il ricordo dell’unico momento in cui lo stesso abbia sentito un legame con i propri figli. Questi stessi lacci sono il dramma dei componenti di una famiglia che nelle mura di una casa glaciale ci regalano, su tre piani temporali diversi ma vicini fra loro, il proprio punto di vista, confermando che quel che un tempo è stata definita tempesta, è ancora ben ancorato alle loro vite.
Sono, infatti, la separazione dei genitori, il loro ricongiungimento – sebbene antecedenti al tempo dello svolgimento dell’azione- e le inevitabili conseguenze, che si palesano sulla scena.
Vanda, Valeria Scalera, con una voce che arriva dritta alla pancia dello spettatore, supportata da giochi scenografici efficacissimi, dà voce alla sue lettere scritte nei quattro anni di separazione dopo la fuga del marito a Roma con l’amante Lidia. Aldo, un Silvio Orlando che con forte convinzione lascia trasparire lo smarrimento e la frustrazione del suo personaggio, approfitta del disordine in casa provocato dalla venuta dei ladri per mettere in ordine le sue idee: risponderà dopo anni a quelle lettere mai tornate indietro della moglie.
Ultimo quadro, ulteriore conferma. Dramma della separazione è il tappeto delle vite dei personaggi: i due figli, accecati dal rancore della loro infanzia, cinici, diseducati all’amore, mettono sottosopra casa. Sono loro i “ladri”. I profanatori di un tempio, di un focolare che in realtà è già vuoto da tempo.
“L’Eden non è mai esistito, anche quando ce l’hanno voluto far credere. Bisogna accontentarsi dell’inferno” dice la sorella al fratello.
È vero, il tema affrontato è sempre più comunemente discusso ai giorni nostri, inevitabili dunque luoghi comuni, ma il teatro insegna che ogni personaggio bisogna della dignità di essere ascoltato. Ogni personaggio grida aiuto.
La storia, a mio avviso, trascende il dramma familiare, portando lo spettatore a riflettere sulla condizione della propria vita. Le parole di Domenico Starnone sono un’accusa a chi non ha la forza di rischiare, a chi, insoddisfatto, rimane ancorato a delle idee in cui non crede più pur di avere una certa stabilità, ma accetta di soffrire silenziosamente. È un invito a comprendere che spesso per trovare la felicità non conta correre dietro a nuovi inizi, non occorre andare così lontani. Forse la poeticità dei personaggi cecoviani non aiuta nella vita di tutti i giorni.