“Qualsiasi malessere proviene dal non saper restare tranquilli in una stanza”, scriveva Pascal. Il problema è se quella stanza è il mesto scenario dove desolatamente, giorno dopo giorno e purga dopo purga, si recita il tuo requiem alla vita. È così per Ida, una povera vecchina che, dopo aver vissuto a lungo di forti passioni, è stata abbandonata in un “postaccio schiantavecchine”, un ospizio: sola, dimenticata e per di più costretta su una sedia a rotelle, metafora meccanica del suo immobilismo fisico divenuto anche spirituale, poiché ha assuefatto la parola e la mente, le cui funzioni sono state sostituite in toto da un campanello su di un bracciolo e da una televisione rincoglionente. Proprio da questa scatola ipnotica, che lo spettatore fin dall’ingresso in sala trova già accesa e a tutto volume a far da triste compagna alla nostra nonnina, parte la suggestione di questa pièce scritta da Stefano Benni e diretta da Alessandro Tedeschi, per l’interpretazione deliziosamente azzeccata di quattro brave attrici, ritrovate non a caso fra le quinte teatrali di un’altra precedente esilarante opera dello scrittore bolognese, “le Beatrici”, anch’essa come questa di produzione “Bottega Rosenguild”. Meritevoli dunque le descrizioni delle altre bizzarre figure, tutte rigorosamente donne che, come allucinazioni meravigliose, riempiono la scena con carisma e affiatamento, accompagnando Ida in un céliniano “viaggio al termine della notte”, la notte della vita. Si parte da una diva delle telenovelas, fedifraga compulsiva, che rincorre e acchiappa “scopatine” nelle Pampas con una spavalderia gauchesca, maliziosa e irriverente. Ella è inoltre una scafata popperiana, cioè una falsificazionista di mestiere che ci tiene a rimarcare il suo essere “fe-dele, fe-dele, fe-dele” all’amante che l’ha distrutta, tradendola a sua volta, così svelando la necessità di cercare dietro ogni scappatella un modo per calmierare le sue insicurezze e fragilità. Seguono due animali curiosi, personificati alla maniera delle fiabe di Esopo e quasi psicoanalizzati dallo stesso Benni: anzitutto un’ape operaia dalle inclinazioni leniniste, laboriosa e ingenua nostalgica di un’identità sociale asfaltata dagli egoismi della contemporaneità, un personaggio fuori dal tempo, che inneggia alla lotta di classe e alla rivoluzione animale ma con un candore e una dolcezza irresistibili. Poi una cagnetta labrador, grossi occhiali neri e sigaretta alla mano, in forte crisi depressiva per il suo sentirsi diversa, sbagliata, in quanto incapace di rispondere all’affetto del padrone e alle ordinarie coccole umane: effettivamente un disturbo atipico per un cane, quindi degno di essere sfogato dentro lo sfiatatoio psicoanalitico delle fantasie di Ida. Tutti questi personaggi hanno un grosso problema, certo, ma non temono di nascondere agli altri e a se stessi la loro natura, la loro bizzarra e dissacrante personalità (nonnina Ida compresa). Ecco dunque le “pecore nere” di cui al titolo, figure umane e figure animalesche ovviamente antropomorfizzate (“umano troppo umano” direbbe Nietzsche), che si alternano per dare corpo e voce a 4 monologhi e a una ballata capaci di divertire e far pensare, commuovere e indignare (“le molle del pensiero creativo sono la sensibilità e la collera” ricorda Max Frisch, autore molto caro a Benni). Il tutto nell’abbraccio confortevole di una scenografia semplice e comunicativa (impreziosita dalle colorate installazioni all’uncinetto dal gusto demodé della designer Alessandra Rovedo) e nella surreale, sagacissima prosa che fa di questa breve pièce un piccolo gioiellino che lascia gli occhi illuminati e il petto in subbuglio. Tra pop e drammaturgia, la vita e il teatro hanno ancora molto da dire e da rimbrottarci.