Pecore Nere | visto da Roberta Di Pofi

Entro, mi faccio largo tra gli spettatori, quelli più puntuali di me e conquisto la mia poltrona. Qualcuno è già in scena, eppure non sono in ritardo, non capisco. Ma non sono a teatro, sono in ospizio. L’abile penna di Stefano Benni è scivolata via dalla carta, diretta al palcoscenico. Di spalle una donna in carrozzina, il suo zapping assente, cela lo sguardo ma non i pensieri, la sua solitudine si impone prepotente nell’attesa.
Seguono delirio, visioni: tre donne, di cui un’ape e una labrador (e qui gli habitués del Benni non hanno battuto ciglio) si rivelano alla loro silenziosa compagna, al pubblico, a sé stesse, in un flusso di coscienza irruente, privo, come da prescrizione, di scrupolosa punteggiatura.
Sullo sfondo, una scenografia all’ultimo colpo di uncinetto ci fa fiutare i climi un po’ fiacchi e desertici del Messico o, nella fattispecie, di un gerocomio.
Lavoro certosino la direzione di Tedeschi, che trasforma una “chiacchierata” in quattro monologhi, senza però perdere il filo del dialogo. Le protagoniste vengono a tratti risucchiate dalla scenografia per ascoltare, in religioso silenzio ed ancora si passano il testimone, arricchendo l’assolo drammatico di toni grotteschi, ammissioni sguaiate, una spolverata di politica qui e lì, qualcuna superflua, déjà entendue.
Un plauso al quartetto collaudato ne “Le Beatrici” che si è ritrovato, come pure ha fatto, a mo’ di spin-off, con la Vecchiaccia dell’opera sopraccitata. Coinvolgente la Szaniszlò, che per questo ruolo si carica sulle spalle quarant’anni non suoi. Surreale, traballante, come la vita d’altronde, l’impalcatura costruita -intenzionalmente- da Benni e Tedeschi per tenere in piedi lo spettacolo. Vietato andarci coi piedi di piombo, crollerebbe, meglio librarsi a una spanna da terra.
Rido, ridiamo, tacciamo. Ci catturano, le pecore nere; gli occhi si inumidiscono, l’addome si contrae tra le risate. Raccogliamo le loro confessioni e sogniamo insieme, di quei folli sogni che trascendono le inibizioni.
Più di tutti le nere creature sono state dimenticate, rifiutate e hanno incassato segretamente il colpo, tenendosi stretta la dignità, invigorendosi. Non pecora era, ma nera pantera. La bianca armonia del gregge la sfidano, irriverenti, impavide; le voci confuse in un elisir di ribellione e allegorie. E quando la fiamma si consuma, quello che all’infermiera pare il delirio di una vecchia pazza, a noi, cui il segreto delle pecore nere è stato svelato, giunge come un grido disperato di salvezza.