Van Gogh, genio incatenato.
Il manicomio in cui Van Gogh è stato rinchiuso nella seconda metà dell’ottocento si chiama Saint Paul de Mausole, appena fuori Saint Remy, in Provenza. Fino al gesto estremo emblema della disperazione del genio olandese, egli rimarrà rinchiuso contro la sua volontà tra quelle apatiche pareti bianche. Lo spettacolo propone un vero e proprio zoom sulla pazzia del pittore in quella prigione monocolore, dovuta non tanto ad una questione naturale, ma ad una follia indotta dall’incomprensione del suo essere. L’immaginazione di un confronto prolungato con Theo, il fratello, al quale più volte spedisce lettere è il simbolo di quanto Vincent desideri semplicemente essere libero. Avere la possibilità di esprimere la propria arte è questione per lui vitale. Non avere una tela gli fa scaturire la sua foga. Gli infermieri del manicomio e lo psichiatra si presentano nel racconto come antagonisti, in quanto oscurantisti nei confronti dell’estro dell’artista. Essi non comprendono la sua disperata condizione di solitudine, facendolo impazzire ancora di più. L’unica figura “amica”, quindi, oltre quella del fratello, sembra essere il direttore della struttura. Egli sembra infatti rappresentare una minima speranza di comprensione per Van Gogh che per la prima volta, dall’inizio dello spettacolo, si trova realmente ascoltato in quanto persona. Il capo del carcere travestito da camomilla riconosce all’olandese l’umanità che non gli era mai stata riconosciuta, apprezzando la sua arte, rendendolo un po’ più vivo.
Senza alcun dubbio il protagonista dello spettacolo, Alessandro Preziosi, è stato davvero impeccabile. Tempi, enfasi e movimenti sono stati davvero centrati. Egli è evidentemente riuscito a vestire i panni di un genio, che grida senza ascolto alla libertà. Da sottolineare, inoltre, l’ottima scelta del cast, ogni attore costituisce un piccolo quadrato di un sistema perfetto. Fisicità, voci e caratteri sono stati individuati al meglio nella scelta degli interpreti, assegnando il ruolo giusto a ciascun artista. Francesco Biscione, ad esempio, Il direttore, è il perfetto rappresentante del tipico amministratore e uomo di decisioni comuni secondo l’immaginario collettivo, per voce, fisico e perfino capigliatura. Anche Roberto Manzi, Alessio Genchi e Vincenzo Zampa sono stati davvero “insensibili” proprio come il loro ruolo di psichiatra ed infermieri richiedeva. Erano proprio loro, in realtà, a costringere l’olandese a quelle pareti spoglie, scarne, senza una reale motivazione. Sono gli artefici del bavaglio che cerca di zittire il leone, capacissimo però di ruggire, almeno per l’ultima volta. Anche Massimo Nicolini, il fratello Theo, è stato l’ideale perfetto del fratello assente, proponendo un’interpretazione quasi intoccabile.
La scenografia è volutamente scarna, animata solo da un letto e delle pareti bianche, a rappresentare l’isolamento di Van Gogh e l’assenza di ogni minima via di uscita dalla monotonia del manicomio. Le ombre enormi sulle pareti traspirano quanto Van Gogh sia una grande testa rinchiusa in una minuscola scatoletta di mattoni.
Senza dubbio, dunque, lo spettacolo è riuscito a coinvolgere emozionalmente parlando tutto il pubblico, facendo trasparire al meglio la reale disperazione del pittore e trasmettendo al meglio i sentimenti e i desideri dello stesso. Lasciando una piccola speranza di fuga che, purtroppo, Vincent troverà solo nella morte.