Vincent Van Gogh | visto da Federica Gnudi

Una stanza vuota, bianco pervasivo. Il Van Gogh di Massini, portato sulle scene da Alessandro Preziosi, per la regia di Alessandro Maggi, si muove in questo contesto. Minimalista, claustrofobico, dominato dalla devastante neutralità del vuoto. Difficile da affrontare. Difficile da vivere.

1898,Vincent Van Gogh è appena stato ammesso nel manicomio di Saint- Remy-de-Provence nel sud della Francia. Luogo asettico, presidiato da persone meschine, assolutamente prive di qualsiasi tipo di empatia. Empatia nei confronti di chi poi? Qui sono tutti matti, devono essere allontanati dalla società, vero obiettivo di fondo. L’idea dell’ascolto è lontana, non meno di quella di una possibile guarigione.

L’artista è un individuo «socialmente placido», come viene definto dal medico curante, ma va ‘rettificato’ e soprattutto, allontanato dalla sua compagna di vita, la pittura. E dal colore.
E il tema del bianco ritorna dominante. Bianco il letto, bianca la vasca nella quale viene immerso per ore, bianche le pareti e le fasce con cui lo legano al letto per sventare ipotetici scatti bipolari.

In una routine alienante l’unica apertura sul mondo rimane la scrittura. Che Van Gogh sfrutta  per aggiornare il fratello Theo, per raccontargli con l’immaginazione che da sempre gli ha fatto compagnia, delle finestre, del verde, delle campagne del Sud francese.
Quel Sud che può solo però immaginare. La bianca stanza non ha alcuna finestra.

Un lampo squarcia la monotonia. La visita di Theo a Vincent. Una visita dura, in partenza ostica, segnata dall’astio palpabile di Van Gogh e dall’amarezza di Theo. Che cresce e si evolve con i ricordi d’infanzia dei due fratelli. Vincent, bambino con una fervida immaginazione prima, artista d’eccezione poi. E se l’infanzia era stata segnata dalla creazioni di storie e distorsioni della realtà, l’adulto Vincent vive la vita in bilico, tra un bicchiere di troppo e una donna di più.
Prende forma il Van Gogh proteiforme, dongiovanni, ubriacone, allucinato ma, non dimentichiamolo, socialmente placido.

Eppure l’incontro con Theo non è altro che un’allucinazione, l’ennesimo scherzo di una testa minata. Di un cervello che per vivere lì probabilmente ha bisogno di essere minato.

Come può essere solo un abbaglio? La sanità mentale vacilla. L’individuo placido, diviene irascibile e frustrato, Necessita di costrizione al letto.

Bianca disperazione. Ma anche nel vuoto ci si può riorientare. E la luce ha le sembianze del direttore dell’istituto, uomo di mondo, marinaio, amante di bellezza e arte. Che apprezza la diversità, il genio e il passato di Vincent e lo sprona a ritrovarsi. Sarà il direttore a indagare le cause dei problemi psichici del pittore, permettendogli di dipingere e seguendolo nella sua ripresa.
Colore dopo colore, tela dopo tela, Vincent ritrova nel pennello la “joie de vivre” perduta. Quella che gli farà dipingere i capolavori più celebri della sua carriera.

Spettacolo turbolento e tormentato. Scritto con tensione narrativa crescente. Preziosi/Van Gogh istrionico e conivolgente. Regia senza fronzoli. Come doveva essere.
Da vedere.